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Informazione di Tendenza

Non ce l’ho fatta. Ieri sera mi è capitato di seguire a spezzoni varie manifestazioni sportive, e non ho retto. Non a restare davanti allo schermo, ma a mantenere l’audio. Insofferente al ronzio di sottofondo, ho dovuto toglierlo. Sarà che sono troppo suscettibile, teso come un violino o abituato troppo bene, ma le telecronache che passa il convento mi sembrano un gran letamaio. Quando guardo una partita, qualsiasi essa sia, tressette o hockey, la finale delle olimpiadi o quella dell’oratorio, vorrei sentire un cronista, non un tifoso né tantomeno un esaltato. Concetti che spesso si sublimano, ma a volte il cronista tifoso non strilla e trova formule più subdole per esprimere la sua partigianeria. La notizia è che non capita solamente nelle gare internazionali che contrappongono un’italiana ad un’europea, ma anche quando il cast è straniero purosangue. Esegue Bilbao – Cska, in cui il signor Nicola ha parteggiato tutto il tempo per i baschi magnificando ogni singola azione dei neri, condita con qualche frecciatina ai moscoviti. Vittoria ultra meritata quella del Gescrap, ci mancherebbe, han tirato fuori una signora prova di fronte alla presunzione del più forte che non ha risparmiato i russi. Ma l’argentino era ostinatamente schierato, e questo dava fastidio. Probabilmente Nicola ben si ricorda il giocatore che era, e simpatizza per una squadra che fa del gioco sporco e della provocazione una delle sue grandi armi. Proprio come ai tempi l’argentino. Che commentando in italiano potrebbe anche sfogliare qualche pagina del vocabolario per arricchire il laconico lessico. Purtroppo trovavo irritante anche il compagno di viaggio, quel Gandini o Gambini con i suoi strilli e farinettesche aòzate di voce ad ogni canestro, intercetto, palleggio tra le gambe, palla persa. Dico ma gli hanno spiegato che si tratta di basket e non di pallone? Uno stile che assomiglia al collega Triggari, un altro che ad ogni giocata sente il bisogno di aumentare i decibel neanche stesse avendo un orgasmo. Pure se il punteggio recita 5-0. Quando commentava Milano a tratti faceva addirittura tenerezza da tanto generava compassione. Il coach Peterson lo salvo perché nonostante venga deriso a destra e a manca molte delle sue brevi osservazioni sono più che pertinenti, da autentico uomo di basket che ogni tanto si trova a dover recitare la parte del saltimbanco, ma in realtà ne capisce più di tutti.

La grande delusione di ieri sera però è stato il ridimensionamento di un giornalista che avevo sempre ammirato tantissimo, Massimo Marianella, divenuto un banale aziendalista, una sorta di galoppino. A certi livelli è comprensibile (anche se poco condivisibile) ma come al solito quando c’è di mezzo una squadra italiana si diventa piccoli piccoli. Di Marchegiani non ci si cura, dalle mie parti è quel che si dice un ciuccia balaustre, o se volete lisciapelo, democristiano e chi più ne ha aggiunga pure. Individui su cui si sorvola. Dovendo coniugare l’azienda e la propria professionalità io parteggio per il motto “obbedisco ma protesto” che però capisco richieda coraggio, intraprendenza. Palle. E purtroppo Marianella dimostra di non averne, pur rimanendo grande affabulatore e narratore. Pubblicizzare eventi Sky durante la diretta di una partita l’ho sempre trovato pessimo, se aggiungiamo la telecronaca scadente e parziale abbiamo un quadretto deprimente. E parlo di mezz’ora nel primo tempo, non essendomi avventurato oltre. Con di mezzo un’azione da rigore insabbiata in puro stile omertoso (più da tutti gli altri organi d’informazione a dire il vero, ma non è un insulto scrivere informazione?). Preciso anche qui, l’episodio incriminato io lo trovo discutibile, facente parte di quei contatti che fischi proprio perchè in area. Il fatto è che a parti inverse sarebbe stato un tema portante di qualsiasi discussione, altro che colonna d’Ercole. Da Marianella proprio non me l’aspettavo, lo consideravo un baluardo in una rete infestata dall’orrido. Insomma, a quello ci pensano già la D’Amico e soci.

 
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Pubblicato da su 29 marzo 2012 in Sport & Cultura

 

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Una Nuova Primavera

Mese interessante per l’universo cestistico Marzo: il clima diventa mite consentendo di sgattaiolare fuori dalle palestre per tornare a giocare all’aperto sui campi di cemento, ma soprattutto i campionati più importanti vedono i nodi venire al pettine: in Eurolega partono i quarti di finale per decidere chi saranno le magnifiche quattro che arremberanno il titolo, in Nba si chiudono i termini degli scambi ed i roster ormai definiti si apprestano all’ultimo sprint in vista dei playoffs. Attenzioni vere le calamita anche il torneo Ncaa, l’apoteosi della March Madness collegiale. Ci sarebbe anche il NIT, una volta prestigioso ma ormai versione in tono minore del tabellone principale, una consolazione per squadre che en sono state escluse. Delle 68 che hanno iniziato il numero si è già assottigliato alle quattro prescelte che questo fine settimana si affronteranno a New Orleans per eleggere i campioni nazionali. Connecticut, quelli uscenti, sono stati spazzolati via immediatamente, nonostante presentino in squadra un paio di sicuri prospetti da lotteria Nba, Drummond e Lamb. Interessante capire cosa sia successo ad una squadra che da metà stagione in poi è entrata in un tunnel deprimente di risultati. Campanello d’allarme anche per i due sopracitati? Non che l’assenza dei titolati si sia fatta sentire troppo: confermarsi per due stagioni è impresa titanica, al giorno d’oggi oserei dire quasi impossibile, considerando che i coach difficilmente hanno a disposizione più di uno, due anni i loro migliori giocatori. Anche l’indiziato numero uno quale prima scelta al prossimo draft, Anthony Davis di Kentucky, dopo un solo anno lascerà Lexington per accasarsi in una delle trenta città Nba. Un peccato perché il ragazzo emana già lucentissimi lampi e plasmato ancora per un paio d’anni verrebbe consegnato ai professionisti come super giocatore. La realtà da fronteggiare però è questa: i ragazzi più forti dei licei guardano al college come una fase transitoria verso il professionismo, fase obbligatoria. Conta dunque scegliere una scuola che garantisca visibilità nazionale e possibilità di far risaltare le proprie qualità: agli allenatori che li reclutano il compito di convincerli. Più si viene scelti in alto più il contratto è remunerativo, ma anche finire indietro al primo giro significa sempre contratto garantito e magari possibilità di giocare già in una squadra di primo piano. Non si cade malissimo, di qui la scelta di molti che si dichiarano eleggibili prima del tempo, quando sono ancora acerbi. La conseguenza più evidente è che i coach dei programmi più in vista dello stato possono sì sempre contare sui migliori giocatori, ma devono anche esser preparati a rivoluzionare ogni uno o due anni il loro roster. Anche per questo avere in panchina un allenatore bravo, affidabile, da lasciare in sella il più a lungo possibile può scavare la differenza: gli uomini cambiano, il sistema di gioco no. Chiunque arrivi viene inserito in schemi collaudati, che col tempo si consolidano determinando tendenze ed etichette appiccicabili a tanti college: chi segue il college basket sa che da più di trent’anni Jim Bonheim a Syracuse fa giocare i suoi a zona 2-3, che Tom Izzo a Michigan State predilige il gioco fisico, che Calipari fa correre i suoi come dei treni, che a Georgetown la tradizione di allevare ottimi centri è destinata a protrarsi e via di questo passo. Uno scontro di filosofie affascinante e rinnovato anno dopo anno. Quest’anno alcune big nemmeno erano presenti alla fase finale, UCLA, Arizona e Georgia Tech per dirne tre, mentre altre tipo Indiana tornavano con intenti bellicosi. Kentucky, Louisville, Ohio State e Kansas le superstiti. Non si possono definire sorprese, durante la stagione erano tutte quotate e anche se delle numero uno dei quattro Regionals solo Kentucky è sopravvissuta, Kansas ed Ohio State avevano il 2 e Louisville il 4. Niente miracoli insomma, quest’anno il torneo ha riservato alcuni botti iniziali assestandosi poi su un proseguo più regolare. Nella parte Est Syracuse era la favorita dopo un campionato favoloso, ma la squadra seppur molto profonda ha dovuto inchinarsi nelle Elite Eight ad Ohio State, trascinata dalla sua stella Sullinger: con due falli sulla coppola dopo pochi minuti, ha assistito in panchina al resto del primo tempo dove i suoi son rimasti a galla per poi scatenarsi nella seconda metà. La sua presenza interna ha scardinato la zona degli Orange, carichi di falli in alcuni dei loro giocatori chiave. La durezza e la solidità dei Buckeyes li hanno condotti sino alle Final Four: vengono da un postaccio, la Big Ten, dove avevan perso la finale contro gli Spartans ma che sicuramente li ha forgiati. Hanno un play davvero caparbio e tutto d’un pezzo, Craft, più altri ottimi tre interpreti in quintetto. Dalla panca viene poco ma è bastato per arrivare fin qui. Delusione Florida State, che dopo aver piegato Duke e North Carolina nel torneo di conference pensavo potesse creare grattacapi anche qui: fuori al secondo turno senza infamia ma anche senza lode. Nel quadro Sud Kentucky tiene tutto sotto controllo in modo agevole: quattro vittorie tutte in doppia cifra di scarto, nessun grande patema, nemmeno contro quell’Indiana che l’aveva beffata alla scadere in stagione regolare e che qui invece è stata sommersa sotto oltre 100 punti, rarità a livello collegiale. Saranno anche loro un po’ corti, ma se giocano come sempre batterli è difficilissimo: entrare nella loro area è un’impresa, una giungla di braccia con l’ombrello Davis a sorvegliare tutto e tutti dall’alto; recupero o tiro sbagliato dagli avversari corrisponde quasi matematicamente ad un contropiede fulmineo che sanno condurre anche i lunghi. Calipari d’altronde vuole giocare così, intenso e martellante, non a caso dopo Rose, Evans e Wall sceglie un altro che spinge come un ossesso, Teague, anche se la differenza gliela fanno i lunghi ed i guastatori come Kidd-Gilchrist, un leone che pare un feroce guerriero dancalo sul parquet. In questo Regional la bomba è quella su cui è saltata Duke al primo turno, Lehigh, successivamente addomesticata con prontezza da Xavier. La sconfitta dei Blue Devils rende sempre contente numerose persone, perché non è che stiano molto simpatici. Dal West emerge ancora una volta l’immortale Rick Pitino con i suoi Cardinals, una squadra di cui non fidarsi. Era la parte di tabellone con la numero uno meno solida, Michigan State (che comunque Louisville ha dovuto battere), e pure la numero due traballante, Missouri, pure lei esplosa sulla mina Norfolk State, alla prima apparizione al torneo condita con una bella vittoria. Protagonista il centrone O’Quinn con giocate decisive nel finale e durante tutta la partita. Peccato che al turno successivo siano stati asfaltati da Florida. Infine il settore Midwest, quello in cui sopravvive Kansas ma che avrebbe premiato North Carolina se solo Kendall Marshall non si fosse rotto il polso al secondo turno contro Creighton: senza il loro play tutto fosforo i Tar Heels piegano Ohio al supplementare ma vengono estromessi dai Jayhawks sbarellando nel finale. Peccato perché una squadra con Barnes, fortissimo, Zeller ed Henson meritava di essere guardata anche fino in fondo. Questo il posto che le avrei assegnato, la finale contro Kentucky dove avremmo visto il meglio contro. Le partite però bisogna giocarle e Kansas non ha certo colpe degli infortuni altrui. Dopo aver tremato contro Purdue e North Carolina State (che aveva grosse chances e le ha letteralmente scaraventate dalla finestra), la partita di Elite Eight è stata paradossalmente un pelo più semplice da risolvere, con Robinson e Taylor sugli scudi. Da questo segmento di tabellone è anche arrivata l’unica cavalcata significativa di una squadra poco accreditata, Ohio appunto che avesse giocato con più attenzione gli ultimi possessi i Tar Heels avrebbe potuto batterli nei regolamentari. Ai supplementari non c’è stata storia, specie se non segni per tre minuti. Il mio pronostico dice Kentucky e Ohio State, ma è tutto da vedere. E gustare.

 
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Pubblicato da su 27 marzo 2012 in Basket

 

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Il Sorteggio della Pagliuzza

Mentre negli States sono rapsodicamente attratti dalla follia marzolina del College Basket che un tantino ha contagiato anche il sottoscritto, mentre a Mantova si chiude l’ennesimo fascicolo riguardante torbide storie di doping legate al ciclismo o quel che ne resta, coinvolgendo altri nomi noti, torna l’Eurolega. Stasera è la volta di Siena e del Cska. Non ne ho parlato perché per me quest’anno si assisterà a quarti di finale tra i più scontati della storia recente, in cui ci sono quattro squadre, le teste di serie, nettamente favorite sulle altre. Favorite perché superiori, in alcuni accoppiamenti pure di tanto. Il Barcellona, prescindendo da come stia Navarro, si dovrebbe bere Kazan. Se i russi (sì vabbè russi di nome, di fatto sono un paio più un bielorusso) son quelli delle ultime uscite europee poi tanti auguri; l’unica briscola che hanno in mano è il giocare dispersi nella landa russa, ovvero costringere il Barça ad una lunga e indesiderata trasferta in mezzo ai lupi. L’unica serie su cui nutrivo qualche dubbio era Panathinaikos – Maccabi, ma ieri il plotoncino di Obradovic mi ha risposto. Il clima si scalda e loro assumono il solito schieramento a falange, 1-0 in eccessiva scioltezza, israeliani annichiliti e serie (pare) orientata. Resta comunque l’unica in cui potrebbe sussistere una qualche forma di equilibrio, anche se le due regie non si prestano ad alcun paragone: sarebbe blasfemo. La Montepaschi sebbene abbia manifestato qualche limite di tonnellaggio sotto canestro non dovrebbe, anzi non può incontrare troppi ostacoli nel rimaneggiato Olympiacos, squadra che ha visto ridotto il suo budget per problemi finanziari e che quest’anno in Eurolega è stato decisamente modesto, non rientrando mai nelle squadre d’élite. Il Cska ha perso una sola partita delle sedici giocate finora, che venga battuta per tre volte nel corso di una serie con tre partite in casa lo trovo improponibile. Bilbao è squadra che lotta, che può arrivare ben organizzata e sa giocare sui nervi, ma ha anche offerto prestazioni altalenanti e non vedo come possa salvarsi da una discreta piallatura. Le quattro partecipanti alle Final Four turche per me sono già scritte insomma, e mi sorprenderei terribilmente di non vederne anche una sola ad Istanbul. La pagliuzza più corta è già stata pescata.

In chiave Champions League invece venerdì la pagliuzza era proprio da pescare perché il sorteggio si pescava a debordanti botte di sedere. Pur ritenendo la maggior parte delle esternazioni di Galliani puro inquinamento dell’aria, quando sostiene che le regole del sorteggio andrebbero riviste, attribuendo punteggi alle singole squadre in base ai risultati ottenuti ed introducendo una sorta di tabellone con teste di serie, ritengo abbia brutalmente ragione. Per assurdo i quarti di finale avrebbero potuto vedere il Real Madrid contro l’Apoel, come poi è avvenuto, che al turno successivo sarebbe stato abbinato alla vincente tra Benfica e Marsiglia. Mentre dall’altra parte quattro ottime squadre si sarebbero scannate. Con tutto il rispetto, una strada spianata verso la finale. Cito ad esempio il Real perché è una squadra che finora non ha incontrato una singola squadra di livello: Zagabria, Ajax, Lione, Cska Mosca. In poche parole, Coppa Uefa fino in semifinale. Non mi pare tanto corretto. Stessa cosa sarebbe potuta capitare ad un’altra delle squadre di livello rimaste. Quantomeno il Milan, nonostante il girone ridicolo iniziale, in cui erano già qualificate e le altre aspettavano solo di incassare i soldi delle partite casalinghe, ha affrontato il Barça (2 volte) e l’Arsenal. Suona già meglio. Senza adeguata riforma a me sembra che di Champions League si possa parlare solo in astratto. In realtà le squadre forti andrebbero favorite dal tabellone e non dalla casualità, un po’ come avviene nel tennis o nelle leghe americane. I punteggi andrebbero stilati in base ai risultati internazionali degli ultimi anni ed ai campionati di provenienza. Chiunque voglia scalare la vetta dovrebbe riuscirvi grazie alle proprie capacità, battendo squadre più quotate. Certamente è una politica opposta a quella attuale che mira ad un’espansione verso Est dove di soldi non sembra ne girino tantissimi, nemmeno in Russia dove si investe in altri sport. Opposta perché le capacità di cui parlo più che sul campo risulterebbero economiche e finanziarie, come tentano di fare Manchester City e Paris Saint Germain. Però lasciare tutto alla sorte ed ai capricci del destino lo trovo ugualmente non equo, soprattutto tenendo conto degli interessi che sposta.

 
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Pubblicato da su 21 marzo 2012 in Basket Europeo, Calcio

 

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I Draft col senno di poi: 2002

Quello di dieci anni fa un momento rivoluzionario: non solo i liceali continuavano ad essere scelti e gli europei stavano esplodendo, per la prima volta nella storia un asiatico fu chiamato col numero uno. Anzi si potrebbe estendere il concetto perché Yao fu il primo non americano ad essere prima scelta assoluta. Un bell’enigma il cinese, un tronco dall’altezza imbarazzante ma anche un ragazzo che mai si era cimentato con un basket di alto livello, perché sarebbe un affronto considerare tale la lega cinese. Ma era impossibile non sceglierlo per primo, la speranza era che potesse cambiare i destini di una franchigia, forse dell’intera lega. Non fu proprio così, purtroppo la sua struttura fisica era soggetta ad infortuni e problemi di diverso tipo che ne limitarono l’efficienza, ma negli anni in cui fu sano Yao era senza dubbio un giocatore di primissimo livello. Un’intelligenza nello scegliere la cosa giusta da fare davvero rara, una tecnica che nessuno riuscì mai a spiegarsi dove aveva imparato. Anche la scelta numero 2 era bloccata, apparteneva a Jay Williams. Purtroppo anche questo giocatore dopo una sola stagione a Chicago fu vittima di un incidente in motocicletta che gli distrusse gamba e di fatto carriera. Oltretutto nel contratto coi Bulls gli era proibito di guidare la moto, troppo rischioso come fatalmente si rivelò. Come detto impazzava la moda degli europei e degli stranieri, tanto che molti venivano scelti in base ad un presunto potenziale e non sull’effettivo valore dimostrato, dando vita a colossali errori; il georgiano Tskitishvili ne è fulgido esempio: alla Benetton aveva visto scampoli di campo eppure fu scelto altissimo. Chi invece era già affermato a livello europeo, vedi Luis Scola, fu ignorato finché gli Spurs, ancora loro, se lo ritrovarono in mano alla 56. Non arriverà a San Antonio perché ritennero non fosse compatibile con Duncan: ogni tanto sbagliano anche loro. Il resto delle chiamate è condito dalle solite bufale e da buone pesche fatte con numeri alti. Non è un caso che gli scout dopo i primi 10-12 giocatori, quelli su cui si è più sicuri, inizino a parlare di palude: scegliere è sempre un azzardo, non si sa mai quanto un giocatore possa rendere a livello Nba e certo non è la carriera universitaria a poterlo dire con esattezza.

 Sede: New York Squadra College
1 Yao Ming Houston Cina
2 Jay Williams Chicago Duke
3 Mike Dunleavy Golden State Duke
4 Drew Gooden Memphis Kansas
5 Nikoloz Tskitishvili Denver Italia
6 Dajuan Wagner Cleveland Memphis
7 Maybyner Hilario Nenè Denver Brasile
8 Chris Wilcox Los Angeles Clippers Maryland
9 Amare Stoudamire Phoenix
10 Caron Butler Miami Connecticut
11 Jared Jeffries Washington Indiana
12 Melvin Ely Los Angeles Clippers Fresno State
13 Marcus Haislip Milwaukee Tennessee
14 Fred Jones Indiana Oregon
15 Bostjan Nachbar Houston Italia
16 Jiri Welsch Golden State Slovenia
17 Juan Dixon Washington Maryland
18 Curtis Borchardt Utah Stanford
19 Ryan Humphrey Orlando Notre Dame
20 Kareem Rush Los Angeles Lakers Missouri
21 Qyntel Woods Portland NE Mississippi CC
22 Casey Jacobsen Phoenix Stanford
23 Tayshaun Prince Detroit Kentucky
24 Nenad Krstic New Jersey Serbia
25 Frank Williams New York Illinois
26 John Salmons Philadelphia Miami
27 Chris Jefferies Toronto Fresno State
28 Dan Dickau Atlanta Gonzaga
29

La 29 manca da qualche anno per via di un contratto illegale firmato da Joe Smith con Minnesota, che venne punita. Oltre al cinese ed al georgiano come si può vedere tanti altri stranieri: Nenè, Nachbar, Welsch, Krstic, conditi da Archibald, Gazduric, Vujanic, David Andersen, Navarro, Kasun, Songaila, Sekularac e Scola. Addirittura vennero scelti Peter Fehse, tedesco che militava in seconda divisione (e che mai giocherà fuori dalla Germania), e l’argentino Kammerichs. Due che non hanno esattamente fatto onde. A farne le spese diversi prodotti dei college finiti molto più in basso delle attese, come successe a Kareem Rush. Ma nell’occasione si rivelò una valutazione esatta. Non fu il caso di Boozer, crollato fino alla 35 (Cleveland) che si rivelò per esempio molto più efficace di Gooden, piantagrane buono ad accumulare statistiche. Al secondo giro finirono anche Roger Mason Jr. (31, Chicago), Ronald “Flip” Murray (42, Milwaukee) e Matt Barnes (46, Cleveland). Degli stranieri sopracitati solo i sudamericani ebbero un vero impatto, Navarro venne con qualche anno di ritardo, disputò una buona stagione da rookie ma preferì tornare a Barcellona dove era il re incontrastato. Degli est europei Krstic e Songaila si ritagliarono uno spazio dignitoso, ma entrambi probabilmente erano più adatti al gioco del vecchio continente, mentre gli altri non ebbero successo negli States, ed alcuni nemmeno dove rimasero. Tante delusioni le regalarono pure gli americani: Wagner, Ely, Haislip, Borchardt, Humphrey, Williams mai nemmeno sul radar e nella migliore delle occasioni dirottati in Europa senza fare faville, Dunleavy e Gooden sotto il par, Wilcox, Jeffries e Jones molto sotto. Qyntel Woods notissimo per arresti e violazioni assortiti.

  1. Yao Ming: al netto degli infortuni il migliore. Sempre e comunque da prendere col numero uno.
  2. Amare Stoudamire: le cifre parlano per lui, non sembra uno che si nasconde quando conta però zampate ancora non ne ha date.
  3. Carlos Boozer: ala forte solida, larghissima, con un mortifero tiro costruito dalla media, secondo violino ai Jazz e ora ai Bulls. Non sarà un leader ma è scuola Duke e vuole vincere.
  4. Nenè: buono ma non buonissimo, piedi da ballerino e ottime doti di passatore ma manca sempre il nichelino per trasformarlo in autentica stella trascinatrice.
  5. Caron Butler: gran realizzatore ma mai nel gotha ebbe il suo picco ai Wizards. Ala piccola di buon livello, l’infortunio con Dallas lo ha privato di un titolo da protagonista. Ma è ancora in gioco.
  6. Luis Scola: macchina da fondamentali, specie sul perno. Si pensava sottodimensionato ed invece quanti ne porta a scuola. Certo contro i top soffre ma il carattere è argentino.
  7. Tayshaun Prince: fenicottero smilzo dalle braccia smisurate ed un gioco particolare. Lasciasse Detroit per una forte potrebbe ancora tornare utilissimo. Oro a Pechino.
  8. Mike Dunleavy: figlio di allenatore e con la presunzione di essere meglio degli altri, ha comunque intelligenza da vendere e ottimo tiro.
  9. Drew Gooden: individualmente bravo sì, ma giocare di squadra è un altro paio di maniche. Bene quando pensa ai suoi numeri, ma non te ne fa vincere tante.
  10. John Salmons: altro elemento che fa onde solo nei primi mesi, seguiti inesorabilmente da problemi e saluti. Non a caso giramondo Nba.

Un draft tutto sommato discreto ma non certo eccezionale. Troppi errori, troppe incompiute. Fortunello Prince che finì al posto giusto nel momento giusto, completando alla perfezione i Pistons che vinceranno l’anello proprio in quell’anno ponendo termine al dominio Lakers.

L’analisi termina qui. Facile farla, ma era solo per dare un’idea. Anche se ognuno può stilare i suoi dieci, rimane evidente come tranne in rari casi l’ordine di chiamata verrebbe stravolto, con l’ingresso di numerosi giocatori mal giudicati, sconosciuti o su cui si nutrivano troppi dubbi. Un mestiere tutt’altro che semplice insomma.

 
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Pubblicato da su 20 marzo 2012 in NBA

 

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I Draft col senno di poi: 2001

L’inizio del nuovo millennio fu l’apoteosi dei liceali e della tendenza che voleva il college snobbato anche da chi lo frequentava, restando parcheggiato un anno o due in attesa che le sue quotazioni salissero e parallelamente pure la grana da percepire tra i professionisti. In questo draft saltarono a piè pari il college 3 dei primi 4 scelti, e questa tendenza, perpetrata negli anni a venire da grandi nomi come James o Howard, fu la molla che fece porre a Stern l’obbligo di un’età minima per giocare tra i pro. La vera ragione fu per non far passare il messaggio che soldi e celebrità ponessero una solida istruzione in secondo o terzo piano, ma in realtà a livello tecnico un numero di giocatori sempre maggiore che non frequenti gli anni accademici, fondamentali nel processo di crescita di un atleta, porta ad un impoverimento evidente del gioco, quello che abbiamo sotto gli occhi anche oggi. Non è un caso che i giocatori Fiba, solitamente con una base tecnica più solida e sviluppata, siano riusciti a far breccia in una lega dall’atletismo imperante. Ma torniamo al 2001. La prima scelta era dei Wizards, allora controllati da Jordan, e purtroppo la carriera da dirigente di MJ si è dimostrata inversamente proporzionale a quella da giocatore, avendo inanellato una serie di scelte dannose e scriteriate da cui non si sottrae questa. È il draft dei lunghi, ben provengono dall’high school, tutti additati come salvatori della patria, mentre il quarto ha appena dominato le finali della Liga spagnola. Neanche vi spiego chi ha avuto successo tra i quattro dell’Ave Maria. Dietro di loro navigano diversi giocatori che sapranno imporsi sul palcoscenico Nba, accompagnati dai soliti altri che invece si sono persi o han dimostrato di essere tutto fumo e neppure di quello buono. Sui piccoli in tanti effettuarono valutazioni errate tanto da lasciarsene scappare diversi che scivolarono al termine del primo giro o addirittura al secondo. Tra loro spiccano un ragazzino con la faccia da schiaffi figlio di un americano, nato in Belgio e cresciuto in Francia, ed il figlio di un circense. Si sentirà riparlare anche di loro.

Sede: New York Squadra College
1 Kwame Brown Washington
2 Tyson Chandler Chicago
3 Pau Gasol Memphis Spagna
4 Eddy Curry Chicago
5 Jason Richardson Golden State Michigan State
6 Shane Battier Memphis Duke
7 Eddie Griffin Houston Seton Hall
8 DeSagana Diop Cleveland
9 Rodney White Detroit Charlotte
10 Joe Johnson Boston Arkansas
11 Kedrick Brown Boston Okaloosa-Walton CC
12 Vladimir Radmanovic Seattle Serbia
13 Richard Jefferson New Jersey Arizona
14 Troy Murphy Golden State Notre Dame
15 Steven Hunter Orlando DePaul
16 Kirk Haston Charlotte Indiana
17 Michael Bradley Toronto Villanova
18 Jason Collins New Jersey Stanford
19 Zach Randolph Portland Michigan State
20 Brendan Haywood Orlando North Carolina
21 Joseph Forte Boston North Carolina
22 Jeryl Sasser Orlando Southern Methodist
23 Brendon Armstrong New Jersey Pepperdine
24 Raul Lopez Utah Spagna
25 Gerald Wallace Sacramento Alabama
26 Samuel Dalembert Philadelphia Seton Hall
27 Jamaal Tinsley Indiana Iowa State
28 Tony Parker San Antonio Francia
29

Su Kwame, come già accennato, vige il silenzio stampa. Stesso criterio per Eddy Curry, più attratto dalle cucine che dalle palestre. Chandler invece forse non valeva la seconda, ma col tempo ha saputo trovare la sua dimensione e nonostante in attacco abbia movimenti di post robotici ha imparato a giocare il pick’n’roll, fondamentale negli ultimi anni. Dietro è il perno su cui costruire una difesa. Prima di affrontare il secondo giro, due parole sulle gemme nascoste pescate al primo: nell’immediato fu Jamaal Tinsley, The Abuser, direttamente dal Rucker Park, uno che con i suoi limiti a basket sapeva giocare eccome, tanto da guidare per svariate stagioni i Pacers. Altri progredirono col tempo: molto in fretta Monsieur Tonì, altro furto legalizzato degli Spurs, con più calma Zebo Randolph e Gerald Wallace, entrambi molto più meritevoli della loro chiamata, se ad essere valutato era il potenziale futuro. Buone cose le hanno mostrate anche Joe Johnson, scaricato prematuramente dai Celtics, e Jefferson. Bene anche Murphy e Raul Lopez, che non si fosse spappolato il ginocchio avrebbe guidato i Jazz per molte stagioni. Oggi invece come cambio del play gioca Earl Watson, pescato alla 40 da Seattle e al momento tra i migliori cambi della Nba. Sempre con la seconda tornata furono selezionati Okur (Detroit, 38) Bobby Simmons (Seattle, 42) e pure Scalabrine (New Jersey, 35), anche se la star resta e resterà Arenas Gilbert, precipitato alla 31 quando i Warriors decisero di concedergli una chance. Con tutti i difetti caratteriali e di gioco Arenas resta un giocatore che prima dell’infortunio aveva saputo far ricredere tutti gli scettici, diventando uno dei migliori venti giocatori della lega. E pensare che il primo giro fu popolato anche da illustri fallimenti, come DeSagana Diop, venuto buono un solo anno a Dallas, Eddie Griffin, ragazzo su cui tutti scommettevano spentosi in un incidente d’auto ma devastato dall’alcool, Rodney White, altro visto da tutti come sicuro realizzatore per un decennio e invece sparito nel nulla, alla stessa stregua di Kedrick Brown, Haston, Forte, Sasser.

  1. Pau Gasol: classe abbinata a tecnica e intelligenza, che chiedere di più? La migliore power forward fino a due anni fa.
  2. Tony Parker: MVP delle finali, trascinatore della Francia, un leader che quest’anno forse ha le chiavi anche degli Spurs.
  3. Zach Randolph: una vita zeppa di errori, ma quando gioca son dolori. Per gli altri. Post mancino di rara efficacia.
  4. Joe Johnson: point forward, vive di isolamenti. Se invece del leader facesse il Pippen sposterebbe tanto.
  5. Gilbert Arenas: questo invece non poteva che essere il leader maximo, quindi perfetto per una squadra di metà classifica, perché se non comandava  faceva danni ed era troppo instabile per guidare una big.
  6. Tyson Chandler: già detto, perno difensivo e ottimo interprete di pick’n’roll. In carenza di lunghi basta e avanza.
  7. Shane Battier: difesa perfetta sugli esterni, tiratore sugli scarichi, mentalità dura e vincente. In squadra uno così lo vuoi sempre.
  8. Jason Richardson: classico atleta da numero ad effetto che col tempo si trasforma in tiratore dall’arco. Buono, non eccezionale.
  9. Gerald Wallace: tuttofare all’ala che produce tanti numeri ma ha sempre giocato in squadre perdenti, e forse una ragione c’è.
  10. Jamaal Tinsley: giocatore di strada, difendeva solo se sfidato, ma come passava…anche la testa per il basket non mancava.

Alla dieci metto Tinsley ma potrebbero andar bene anche Jefferson, Murphy, Okur. Dipende da cosa  si avrebbe bisogno. Seguirebbero poi un paio di lunghi come Dalembert e Haywood, dignitosi comprimari. Da segnalare tanti giocatori che nel tempo transiteranno per l’Europa, Italia compresa: Omar Cook, Willie Solomon, Terence Morris, Jeff Trepagnier, Kyle Hill, Michael Wright, assieme a Fotsis e Javtokas. Un draft tutto sommato qualitativo che ha offerto due favolosi giocatori ed una manciata di attori protagonisti.

 
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Pubblicato da su 19 marzo 2012 in NBA

 

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I Draft col senno di poi: 2000

La legge dantesca del contrappasso vuole che ad un’annata coi fiocchi ne segua una di carestia. Non si scappa anche qua. Il primo draft del nuovo millennio, quello che segue il primo titolo della coppia O’Neal-Bryant, non presenta nessun nome rilevante. Come al solito ci sono stagioni in cui le squadre scarse gareggiano a chi ne perde di più consapevoli dei freschi collegiali da inserire in squadra. Con Duncan per esempio, riconosciuto fenomeno, fu così, come in seguito anche per James. Ci sono altri anni in cui la prima scelta non è ambitissima, tipo il ’98, perché ti conduce ad un bivio: se scegli il centro misterioso e si rivela una pippa, fai una figura barbina e condanni la squadra alla mediocrità (vedi Clippers); se però non lo scegli e quello si dimostra un crack ti sei mosso in modo ancora peggiore e verrai sempre additato come colui che non scelse XY. Nel 2000 niente di tutto ciò: talento in giro ve n’era davvero poco, l’occhio lungo di scout e general manager doveva scovare la gemma nascosta, il giocatore che poteva tornare utile. Quando non ci sono fenomeni all’orizzonte, bisogna cercare di trovare il pezzo di complemento alla squadra, un po’ come nel Tetris. Fu anche l’ultima stagione dei Vancouver Grizzlies, poi rilocati a Memphis: i giocatori non volevano giocare in Canada (tasse più alte), gli spettatori erano freddini e la dirigenza non azzeccava una scelta. Naturale cambiare, anche se vi posso assicurare che Vancouver è una delle città più belle del Nord America.

  Sede: Minneapolis Squadra College
1 Kenyon Martin New Jersey Cincinnati
2 Stromile Swift Vancouver Louisiana State
3 Darius Miles Los Angeles Clippers
4 Marcus Fizer Chicago Iowa State
5 Mike Miller Orlando Florida
6 DeMarr Johnson Atlanta Cincinnati
7 Chris Mimh Chicago Texas
8 Jamal Crawford Cleveland Michigan
9 Joel Przybilla Houston Minnesota
10 Kenyon Dooling Orlando Missouri
11 Jerome Moiso Boston UCLA
12 Ethan Thomas Dallas Syracuse
13 Corey Alexander Orlando Fresno State
14 Mateen Cleaves Detroit Michigan State
15 Jason Collier Milwaukee Georgia Tech
16 Hidayet Turkoglu Sacramento Turchia
17 Desmond Mason Seattle Oklahoma State
18 Quentin Richardson Los Angeles Clippers DePaul
19 Jamaal Magloire Charlotte Kentucky
20 Speedy Claxton Philadelphia Hofstra
21 Morris Peterson Toronto Michigan State
22 Donnell Harvey New York Florida
23 DeShawn Stevenson Utah
24 Dalibor Bagaric Chicago Croazia
25 Iakovos Tsakalidis Phoenix Grecia
26 Mamadou N’Diaye Denver Auburn
27 Primoz Brezec Indiana Slovenia
28 Eric Barkley Portland St. John’s
29 Mark Madsen Los Angeles Lakers Stanford

 

Una strage, ne rimangono in piedi davvero pochi. Martin si ruppe una gamba tre mesi prima del draft ma i Nets lo scelsero ugualmente alla 1. Inutile gettare troppe croci addosso, materiale scarseggiava ed errori ne commisero quasi tutti. Il più grande fu di lasciar scivolare fino alla 43esima posizione Michael Redd, che fu chiamato da Milwaukee. In questa secca avrebbe meritato molta più considerazione. Al secondo turno finirono anche Eddie House, rivelatosi un forno a microonde in fatto di punti dalla panchina, e Jaric che al primo giro avrebbe potuto finirci vista l’annata. Scelti anche Mottola e Rakocevic. Uscirono anche un paio di lottatori, Najera e Cardinal, assieme a molti di cui si risentirà parlare in Europa: Pete Mickeal, Scoonie Penn, Guyton, El-Amin, raggiunti da diversi del primo giro.Raccapricciante come tutta la batteria di lunghi abbia miseramente fallito: Swift, Mimh, Przybilla, Bagaric, Tsakalidis, N’Diaye, Brezec. Si salva solo Magloire che non so bene come diventerà pure un All star. Collier purtroppo morì a 28 anni per un attacco cardiaco, e pure DeMarr Johnson rischiò la vita in un incidente d’auto che di fatto compromise tutta la sua carriera. Darius Miles è una storia a parte perché le capacità non mancavano, ma qualche infortunio e soprattutto una testa bacata ne soffocarono le potenzialità. Autocastrazione. Altri invece dimostrarono semplicemente di non essere in grado di farcela, vedasi i casi Fizer, Moiso, Alexander, Cleaves, tutte scelte sbagliate. Che si aggiungono a tutti i lunghi, alcuni dei quali costeggeranno l’Nba per anni senza lasciare traccia (Dooling o Claxton non è che abbiano fatto molto di più). Dovendo sceglierne dieci si fatica:

  1. Kenyon Martin: due finali, perse, ma almeno è diventato un solido 4 con grandi capacità difensive e leadership ondivaga.
  2. Michael Redd: il miglior realizzatore del draft, big guard con anni buoni ai Bucks e una chiamata dal Team Usa, ma mai visto ai livelli rarefatti.
  3. Hedo Turkoglu: classica point forward, buone stagioni ai Kings ed esplosione ad Orlando trascinata di peso alla finale del 2009.
  4. Jamal Crawford: punti, tanti punti, attaccante prolifico e fantasioso ma individualista come pochi. Realizzatore sì, uomo squadra..sq..cosa?
  5. Jamaal Magloire: nella penuria di centri dell’ultima decade il canadese almeno garantiva solidità e durezza sotto canestro.
  6. Mike Miller: discreta carriera da sesto uomo e tiratore sovradimensionato, ha dimostrato comunque di saper giocare a basket prima di esser rallentato da una miriade di problemi.
  7. Quentin Richardson: da falegname al college si è trasformato in efficiente tiratore piazzato. Trottola nell’Nba con alcune buone stagioni tra Clippers, Suns e Knicks.
  8. Morris Peterson: altro tiratore, vanta una discreta carriera nei Raptors di cui per alcune stagioni è rilevante pedina. Una volta scambiato a New Orleans si spegne nell’oblio.
  9. DeShawn Stevenson: l’unico di questi a vincere il titolo, buon difensore e limitato attaccante con carriera divisa tra Utah, Orlando, Washington e Dallas.
  10. Darius Miles: nonostante tutto trova posto nei dieci perché almeno a Portland ha avuto delle stagioni decenti. Quando avrebbe dovuto spiccare il volo però ha fatto come Icaro.

Senza girarci attorno, uno dei draft più poveri e malmessi degli ultimi anni. Anzi, il peggiore.

 
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Pubblicato da su 18 marzo 2012 in NBA

 

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I Draft col senno di poi: 1999

Il cambiamento ventilato in realtà non si verificò immediatamente. L’Europa ancora era conosciuta col binocolo, Nowitzki incontrava le sue belle difficoltà di ambientamento ed adattamento e la sua scelta era solo legata alla lungimiranza dei Nelson, padre e figlio. Un altro piccolo, grande cambiamento interessò l’annata del ’99: per la prima volta sotto la gestione di Krzyzewski un giocatore di Duke si dichiarava eleggibile senza aver terminato il quadriennio di studi. Anzi, in realtà furono tre, ma solo Brand ebbe il beneplacito di coach K che evidentemente lo riteneva già pronto. Maggette e Avery vollero fare di testa loro e pagarono: il primo con una scelta più bassa del previsto e una carriera mai davvero sbocciata, il secondo scomparendo dai radar con supersonica rapidità e riducendosi ad una carriera da globetrotter. Si veniva dalla stagione mutilata del lockout, dall’era post Jordan che aveva incoronato il nuovo re della lega, quel Duncan arrivato solo da due anni ma da giocatore già fatto e finito. Fu un draft particolare, perché nonostante non ci fossero prospetti destinati a diventare stelle di prima grandezza, giocatori franchigia capaci di determinare la svolta per la squadra, il 30 giugno a Washington vennero chiamati tantissimi ragazzi che nell’Nba si ritagliarono un posto comodo ed una duratura permanenza, diventando importanti elementi per le loro squadre. Quello che alcuni di loro sono ancora oggi. Si verificò poi un episodio poco considerato al momento, ma che in seguito orienterà i destini della lega: alla numero 57 i freschi campioni San Antonio Spurs nell’indifferenza generale selezionarono un’acciughina argentina che giocava in Italia a Reggio Calabria ma era in procinto di passare alla Virtus dove avrebbe scritto pagine di storia: tale Ginobili Emanuel. Il primo di tanti autentici furti di bravura mista a fortuna perpetrati dai texani nei draft.

Sede: Washington Squadra College
1 Elton Brand Chicago Duke
2 Steve Francis Vancouver Maryland
3 Baron Davis Charlotte UCLA
4 Lamar Odom Los Angeles Clippers Rhode Island
5 Jonathan Bender Toronto
6 Wally Szczerbiak Minnesota Miami (Ohio)
7 Richard Hamilton Washington Connecticut
8 Andre Miller Cleveland Utah
9 Shawn Marion Phoenix UNLV
10 Jason Terry Atlanta Arizona
11 Trajan Langdon Cleveland Duke
12 Aleksandar Radojevic Toronto Barton   Comm. College
13 Corey   Maggette Seattle Duke
14 William   Avery Minnesota Duke
15 Frederic   Weis New York   Knicks Francia
16 Ron   Artest (poi Metta World Peace) Chicago St.   John’s
17 Cal   Bowdler Atlanta Old   Dominion
18 James   Posey Denver Cincinnati
19 Quincy   Lewis Utah Minnesota
20 Dion   Glover Atlanta Georgia   Tech
21 Jeff   Foster Golden   State Southwest Texas State
22 Kenny Thomas Houston New Mexico
23 Devean George Los Angeles Lakers Augsburg
24 Andrei Kirilenko Utah Russia
25 Tim James Miami Miami
26 Vonteego Cummings Indiana Pittsburgh
27 Jumaine Jones Atlanta Georgia
28 Scott Padgett Utah Kentucky
29 Leon Smith San Antonio

Come si può notare tanti sono ancora sulla piazza a fare onde, altri ne hanno prodotte. Dei primi dieci l’unico davvero sottotono si è rivelato Bender, liceale limitato da molti infortuni ma che aveva mostrato qualità. Sull’altro scelto al primo giro, il Leone, meglio calare il sipario. Gli Spurs avevano sentito puzza e infatti lo girarono subito a Dallas per Giricek. A parte Ginobili il secondo turno non regala grandi nomi: il canadese Todd MacCulloch fu scelto da Phila alla 47 e si rivelò un buon giocatore, ma fu costretto a ritirarsi prematuramente per problemi ai piedi. Tralasciando qualche comprimario (Elson, Rodney Buford, il cinese Zhi Zhi ovviamente preso da Dallas) diversi nomi li ritroviamo in Europa: Giricek alla 40, Lou Bullock alla 42 (Minnesota), Lee nailon subito dopo (Charlotte). Tra gli Europei al primo giro invece oculata scelta dei Jazz con Kirilenko e solite chiamate gettate al vento per due lungagnoni: Radojevic, 3 partite ai Raptors e poi disperso fino a ritrovarsi a Cipro, e quel pippone di Weis che dopo le Olimpiadi di Sidney neanche se lo sognò di traversare l’oceano. Ovviamente i Knicks si bruciarono la possibilità di scegliere il figliol prodigo Artest. Occasione che non si lasciarono sfuggire altre squadre, quella della chiamata territoriale che cela una certa ignoranza nello scouting: vedasi Miami che seleziona l’idolo locale Tim James o Atlanta che con ben 4 scelte a disposizione pigliano due ragazzi da college della Georgia. Tendenza comune in diversi circoli Nba. Langdon fu il quarto di Duke ma i suoi piedi lenti lo dirottarono verso il nostro continente ed il Cska, che in quegli anni costruì uno squadrone sotto Messina. Francis, che forzò subito la trade a Houston dato che non voleva giocare in Canada, fu il giocatore che esplose con maggior fragore, divenne una stella ai Rockets dove conseguì grandi risultati individuali ma non di squadra. Scambiato ai Magic per McGrady iniziò un veloce declino aiutato dai soliti infortuni.

  1. Manu Ginobili: intelligenza al potere supportata da tecnica, guasconeria e pure grandi doti d’atleta (all’inizio). Quando devo vincere per forza io vorrei Bryant o lui.
  2. Lamar Odom: un tuttofare in campo, la vera arma in più dei Lakers negli ultimi anni. Non un leader ma se c’è chi lo fa per lui sposta gli equilibri.
  3. Rip Hamilton: altro che ha vinto un titolo da protagonista in una squadra dal quintetto oliato alla perfezione. Maratoneta e maestro del gioco senza palla sui blocchi.
  4. Jason Terry: tanti punti veloci dalla panchina, palle quadrate e lingua lunga, maturato alla distanza, titolo pure per lui da secondo violino l’anno passato.
  5. Elton Brand: buono ma non quanto ci si aspettava, solido ma senza il salto di qualità che lo portasse a giocare in squadre di vertice.
  6. Baron Davis: il barone ha entusiasmato ma non ha mai fatto strada, l’unica chicca resta l’eliminazione dai Mavs al primo turno con l’armata gialla dai Warriors.
  7. Steve Francis: già detto, forse il migliore dopo l’argentino ma non l’ha mai dimostrato realmente se si eccettuano gli highlights.
  8. Andre Miller: al contrario dei due sopra mister concretezza, mai infortunato, durezza spaventosa, gran passatore e ancora oggi dispensa pallacanestro saltando un foglio di carta.
  9. Shawn Marion: una palla d’energia, ala atipica quand’era ai Suns dove ha giovato come tutti della presenza del signor Nash. Meno brillante ai Mavs dove però ha vinto e fatto valere le sue doti difensive.
  10. Andrei Kirilenko: mai stato una stella ma il classico giocatore da lavoro sporco, oscuro, tutti i dettagli che differenziano una vittoria da una sconfitta.

Non ci sono solo questi. Szczerbiak ebbe una solida carriera da tiratore a Minnesota, e che dire di Artest, idiota che però è un bufalo difensivo ed è capace di vincere partite fondamentali da solo? Anche James Posey ha sempre inciso molto ad alto livello, con Miami e Boston, come anche Foster, prezioso cambio ad Indiana. Le loro buone stagioni le hanno vissute anche Devean George nei Lakers del three-peat (Jerry West lo pescò in un college di Division III), Kenny Thomas o Maggette. Insomma Ginobili scombussola tutto l’ordine prestabilito ma in generale il livello del draft fu davvero buono e ricco di giocatori veri.

 
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Pubblicato da su 15 marzo 2012 in NBA

 

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I Draft col senno di poi: 1998

Il 1998 fu un’annata storica, perché a suo modo determinò un cambiamento nella linea delle squadre americane. Se negli ultimi anni i successi di Garnett e Bryant avevano lanciato la moda dei liceali, terribile a ben vedere, l’isolazionista America stava per aprirsi anche ai giocatori internazionali, in particolar modo agli Europei. Petrovic e Divac erano stati gli apripista al tramonto degli anni ‘80, ma è anche vero che dopo di loro pochi erano stati i discepoli capaci di seguirli. Kukoc, Radja, Marciulonis. Fuoriclasse come Danilovic, Djordjevic o Rigadeau avevano provato l’avventura ma delusi dallo scetticismo con cui venivano trattati tornavano a far la voce grossa nel vecchio continente. Le cose stavano per cambiare, non solo per ragioni tecniche: Stern, un volpone del marketing, aveva capito che la globalizzazione avrebbe potuto costituire un enorme trampolino di lancio per l’Nba a livello mondiale. Ma una lega di soli americani acquista più appeal se incominciano a vedersi anche giocatori provenienti da altri stati tra i suoi protagonisti. In principio, come sempre accade, si puntarono gli occhi sui lungagnoni: l’altezza non si insegna, su tutto il resto si può lavorare. Stessa filosofia che portò alla prima posizione Olowokandi, fino a poche settimane prima illustre sconosciuto nella sua minuscola università di Pacific. Il tempo testimoniò come il grande dilemma del centro dominante restasse sempre in voga. Il draft introdusse l’Nba in una stagione anomala, quella del lockout e delle 50 partite, la prima senza Jordan che pareva essersi definitivamente ritirato dopo che a giugno aveva battuto per la seconda volta i Jazz di Malone e Stockton con il celebre canestro immortalato in tutto il mondo e pure sulla luna.

  Sede: Vancouver Squadra College
1 Michael Olowokandi Los Angeles Clippers Pacific
2 Mike Bibby Vancouver Arizona
3 Raef LaFrentz Denver Kansas
4 Antawn Jamison Toronto North Carolina
5 Vince Carter Golden State North Carolina
6 Robert Traylor Dallas Michigan
7 Jason Williams Sacramento Florida
8 Larry Hughes Philadelphia St.Louis
9 Dirk Nowitzki Milwaukee Germania
10 Paul Pierce Boston Kansas
11 Bonzi Wells Detroit Ball State
12 Michael Doleac Orlando Utah
13 Keon Clark Orlando UNLV
14 Michael Dickerson Houston Arizona
15 Matt Harpring Orlando Georgia Tech
16 Bryce Drew Houston Valparaiso
17 Radoslav Nesterovic Minnesota Italia
18 Mirsad Turkcan Houston Turchia
19 Pat Garrity Milwaukee Notre Dame
20 Roshown McLeod Atlanta Duke
21 Ricky Davis Charlotte Iowa
22 Brian Skinner Los Angeles Clippers Baylor
23 Tyronn Lue Denver Nebraska
24 Felipe Lopez San Antonio St. John’s
25 Al   Harrington Indiana
26 Sam Jacobson Los   Angeles Lakers Minnesota
27 Vladimir   Stepania Seattle Slovenia
28 Corey   Benjamin Chicago Oregon State
29 Nazr Mohammed Utah Kentucky

 

Al secondo giro slittarono alcuni buoni giocatori come Ruben Patterson, pescato alla 31 dai Lakers, che a Portland vivrà ottime stagioni prima di essere sommerso dalla sua stessa violenza. Un numero dopo Seattle puntò su un altro degli imberbi ragazzini provenienti dal liceo, tale Rashard Lewis che per la franchigia diverrà un elemento importante. Skip to my Lou, al secolo Rafer Alston fu scelto tardi con la 39, mentre ancora più in basso, con la 41 i Rockets presero Cuttino Mobley da Rhode Island, l’unica scelta davvero azzeccata perché le tre al primo giro se le giocarono maluccio. Idem con patate per Orlando che ne aveva tre in lotteria ma ne cavò solo Harpring, un autentico duro del parquet che infatti darà il meglio di sé ai Jazz sotto Sloan. Anche qui altra sfilza di lunghi tutti sbagliati: Olo, Doleac, Clark, Skinner, Stepania; almeno loro qualche anno nell’Nba lo hanno speso. Tralasciando la prima scelta assoluta bucata, ma si parla dei Clippers, i primi dieci non sono malaccio, anche se c’è da evidenziare che LaFrentz alla 3 fu troppo alto e il trattore alla 6 fu un suicidio: se ne sottovalutarono i problemi di peso e soprattutto i Bucks lo scambiarono per Nowitzki, il vero crack che dopo una prima stagione traumatica iniziò a diventare quello che tutti conosciamo. Ecco i miei dieci:

  1. Dirk Nowitzki: la sua esplosione e quella di Gasol più tardi ridiedero slancio ai giocatori Fiba.
  2. Paul Pierce: il vero delitto del draft e l’autentico furto di Boston che se lo trovò incredula tra le mani.
  3. Vince Carter: lo spettacolo del giocatore ha abbagliato nascondendone la poca concretezza, anche se è comunque riuscito a giocarsi due finali e negli anni d’oro era una stella indiscussa.
  4. Rashard Lewis: diventato meno forte del previsto, l’immagine scialba di Orlando non deve offuscare le annate coi Sonics di cui è stato punta di diamante.
  5. Jason Williams: il cioccolatino bianco è riuscito a vincere un titolo con Miami a fine carriera ma contando, anche se per lui parlano gli anni spesi ai Kings che furono una delle più belle squadre offensive del decennio.
  6. Mike Bibby: non una stella ma anche lui giocatore concreto e molto tosto fisicamente che ha tenuto botta per diversi anni in squadre di medio alto cabotaggio.
  7.  Antawn Jamison: buon giocatore ma sempre relegato in squadre perdenti e forse con una ragione di fondo. Uomo da quintetto ma non di quelli che spostano.
  8. Al Harrington: egoista come pochi ma uomo capace di exploit realizzativi che risolvono una partita proprio perché gioca al di fuori del contesto. Piantagrane ma se si sa gestire torna utile nelle serate in cui la squadra gira poco.
  9. Raef LaFrentz: vado con lui perché come al solito il bianco americano ha attese eccessive e ne resta imprigionato, però finché gli infortuni non lo hanno limitato ha disputato solide stagioni, pur non essendo una stella.
  10. Qui è dura: vedo Hughes, Wells, Harpring, Mobley, tutti con alcune buone stagioni , tutti con ruoli importanti nelle loro squadre. Di sicuro Hughes è il giocatore da cui si aspettava di più e che più ha deluso in proporzione.

Degli altri Nesterovic, Garrity e Mohammed sono riusciti a costruirsi una solida permanenza, Felipe Lopez e Lue sono diventati delle meteore (anche se Lue ha fatto in tempo a vincere il titolo coi Lakers marcando nel possibile Iverson), Drew è rimasto stella del college e Ricky davis è diventato un Harrington 2.0, individualismo al potere. Al secondo giro furono chiamati anche Bruno Sundov (35, Dallas), il mai pervenuto liceale Korleone Young (40,Detroit), Sean Marks, una carriera da 12° uomo (44, Knicks), e l’inglese Andrew Betts alla 50 da Charlotte. Nonostante le stelle furono solo tre come l’anno precedente, si può affermare che la qualità media fu un pelo maggiore.

 
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Pubblicato da su 14 marzo 2012 in NBA

 

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I Draft col senno di poi: 1997

L’altra sera mi son trovato a fare un giochino con un mio amico che mi aveva chiesto qualche previsione in vista del draft. Competenza che tra parentesi non mi appartiene affatto, perché seguo sì la Ncaa, anche se non in modo assiduo, ma non ho certo il polso di come gli scout Nba giudicano i ragazzi. Rifacendosi ai siti specializzati Anthony Davis è il nome da corsa in questo momento, ma le previsioni in questo terreno scosceso sono da sempre azzardate. Scartabellando diverse nidiate del passato infatti saltano all’occhio errori colossali. Lasciamo stare quelli clamorosi, come Jordan alla 3 (col numero uno fu sempre chiamato Olajuwon comunque) o negli ultimi anni Oden invece di Durant (e purtroppo per lei Portland è sempre di mezzo dalla parte scura della luna). Kobe Bryant alla 13? Vero, su quel gracile ragazzino che decideva di saltare il college si nutrivano molti dubbi, e quel draft vide alcuni ottimi giocatori come Iverson, Ray Allen, Marbury, Abdur-Rahim, Antoine Walker. Ma prima di lui vennero chiamati Fuller e Potapenko. Se non c’è stata notizia di suicidi bisogna ritenersi fortunati. Da qui l’idea di rivisitare alcuni draft passati, vecchi di almeno un decennio, e valutare quale sarebbe dovuto essere il vero ordine di chiamata, quantomeno i primi dieci nomi. Puro esercizio stilistico perché col senno di poi son bravi tutti, ma è stato lo stesso divertente vedere stravolte alcune annate.  Ne ho considerate sei, dal 1997 al 2002, l’epoca in cui più mi sono approcciato al basket stelle e strisce. Si inizia ovviamente con la più distante nel tempo, all’epoca del secondo three-peat di Jordan.

Sede: Charlotte Squadra College
1 Tim Duncan San Antonio Wake Forest
2 Keith Van Horn New Jersey Utah
3 Chauncey Billups Boston Colorado
4 Antonio Daniels Vancouver Bowling Green
5 Tony Battie Denver Texas Tech
6 Ron Mercer Boston Kentucky
7 Tim Thomas Philadelphia Villanova
8 Adonal Foyle Golden State Colgate
9 Tracy McGrady Toronto
10 Danny Fortson Denver Cincinnati
11 Olivier St.Jean (poi Abdul-Wahad) Sacramento San Jose   State
12 Austin Croshere Indiana Providence
13 Derek Anderson Cleveland Kentucky
14 Maurice Taylor Los Angeles Clippers Michigan
15 Kelvin Cato Portland Iowa State
16 Brevin Knight Cleveland Stanford
17 Johnny Taylor Orlando Tennessee-Chattanooga
18 Chris Anstey Dallas Australia
19 Scot Pollard Detroit Kansas
20 Paul Grant Minnesota Wisconsin
21 Anthony Parker Philadelphia Bradley
22 Ed Gray Atlanta California
23 Bobby Jackson Denver Minnesota
24 Rodrick Rhodes Houston Southern California
25 John Thomas New York Minnesota
26 Charles Smith Miami New Mexico
27 James Vaughn Utah Kansas
28 Kelvin Booth Chicago Maryland
29

Dal primo giro gli unici ignorati di un certo peso furono Stephen Jackson, il bandito, selezionato da Phoenix alla 43, ed in tono minore Anthony Johnson, una vita da riserva affidabile che Sacramento chiamò con la 40. Curiosità, con l’ultimo numero i Bulls scelsero Duenas, l’energumeno spagnolo che mai si avventurerà al di là dell’oceano. Che questo venga ricordato come l’anno di Duncan non è nemmeno in discussione, e già la sua scelta conferisce un discreto valore a questa nidiata, che eccelle nelle sue punte da podio ma si dimostra meno consistente nel proseguo dove rimane davvero pochino. Alla quattro troviamo Antonio Daniels per esempio, una carriera da comprimario tanto che solo un anno più tardi i Grizzlies, allora ancora a Vancouver, selezionarono Bibby. I lunghi rappresentano sempre l’incognita maggiore e l’errore di valutazione più pacchiano: se si intravede potenziale non si può soprassedere perché il lungo giusto cambia le sorti di una squadra, come ben insegna Duncan; ma come Tim sono rari e molti si rivelano solo un numero buttato: Battie, Foyle, Cato, Anstey, Grant, Booth solo per citare i più grossolani al primo giro. Fortson e Pollard almeno il loro l’hanno dato. Alla 21 i 76ers videro bene in Parker, ma non ebbero pazienza e lasciarono che il ragazzo migrasse in Europa dove pochi anni dopo ne divenne il miglior giocatore in assoluto alla guida del Maccabi. Dovessi stilare un nuovo ordine, sarebbe più o meno così:

  1. Tim Duncan: e non sto neanche a spiegarlo.
  2. Chauncey Billups: primi anni di carriera sballottato qua e là, uscirà alla distanza affermandosi come leader nei Pistons che vinceranno il titolo nel 2004.
  3. Tracy McGrady: forse il giocatore con più potenziale, ma molto meno incisivo e vincente dei primi due. Una fenomenale incompiuta che parere mio sarebbe stato micidiale come secondo violino, alla Pippen.
  4.  Stephen Jackson: nel bene e nel male un leader e uno con gli attributi quando conta.
  5. Keith Van Horn: schiacciato dalle enormi aspettative, una buona carriera accorciata dagli infortuni.
  6. Bobby Jackson: nei Kings di Webber era sesto uomo decisivo per cambiare il ritmo alla gara, uno che in squadra fa sempre comodo.
  7. Ron Mercer: come il compagno di college Anderson sotto il par ma buono, anche se solo per pochi anni dati i problemi fisici.
  8. Derek Anderson: vedi sopra.
  9. Tim Thomas: fugazzi, altro ottimo progetto sprecato dalla pigrizia e dalla bambagia procurata dal ricco contratto.
  10. Danny Fortson: un guerriero a rimbalzo e nel distribuire botte. L’intimidatore che fa comodo a diverse squadre, non a caso proveniente da Cincinnati.

Oltre a questi anche Mo Taylor, Croshere e Brevin Knight sono riusciti a costruirsi un’onesta carriera professionistica, mentre altri sono letteralmente scomparsi, come Johnny Taylor (transitato un anno anche a Milano) o John Thomas. Oltre a Duenas vennero chiamati altri europei: Milic alla 35, Drobnjak alla 49 e Digbeu subito dopo. La moda per il vecchio continente ancora doveva scoppiare, ma l’anno successivo…

 
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Pubblicato da su 13 marzo 2012 in NBA

 

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8 Marzo in salsa rosa

Feste del genere non mi hanno mai suscitato sentimenti molto distanti dall’indifferenza in quanto vuote del significato che si vorrebbe dar loro e promotrici di un’immagine distorta delle dinamiche umane, almeno dal mio punto di vista. Quasi che si volesse far passare il concetto che le donne siano una categoria alla stessa stregua di vigili del fuoco, pasticcieri o agenti del fisco, cui condonare una festa per un giorno all’anno. Okay forse gli agenti del fisco una festa non ce l’hanno. Ma siccome di sport in rosa non ne parlo mai se si tratta di porgere un semplice omaggio mica ci sono problemi. Non ne parlo perché lo seguo poco, in quanto tranne rare eccezioni negli sport che mi piace guardare la versione femminile si rivela sempre una versione sbiadita di quella originale, e di altri contesti ne capisco poco. Una delle sportive che più ammiro è Shannon Szabados, l’invalicabile portiere della nazionale canadese d’hockey. A Vancouver oltre all’oro maschile reso celebre dal goal in sudden death di Crosby anche la squadra femminile vinse la finale contro gli Stati Uniti, con questa ragazzotta dagli occhi azzurri protagonista di un grandissimo torneo. Nell’edulcorata versione hockeistica femminile i contatti sono proibiti ma il portiere detiene la stessa fondamentale importanza. Con lei anche gli spilli facevano fatica a passare, ma la velocità delle azioni e del puck devono sembrarle uno scherzo, dato che la ragazza si è sempre allenata e giocato con i maschi. Una tosta se non si è capito. Parlando di portieri come non citare Katrine Lunde Haraldsen, estremo difensore della nazionale norvegese di pallamano, una che trasuda grinta da tutti i pori ed il cui fascino non viene minimamente scalfito dall’indossare la tuta tipica dei portieri di handball che mi ricorda tanto le ore di ginnastica alle elementari. Da campionessa europea è stata capace di lasciare l’innegabile comfort della nativa Scandinavia per mettersi in gioco a Gyor, Ungheria. Scelta coraggiosa ripagata dai fatti, perché dopo un periodo di adattamento si è calata nella nuova realtà e quest’anno la squadra è praticamente già alle semifinali di Champions League. Oltretutto è riuscita a trascinare anche la connazionale Lokke, una dei migliori pivot in circolazione. L’esodo verso Est ha interessato anche il campionato italiano di pallavolo, che ha visto la partenza di alcune delle nostre migliori giocatrici verso lidi russi e turchi, le nuove ruggenti mete finanziarie. Giocatrici come Lo Bianco, Anzanello, Del Core, Gioli, Costagrande, han salutato i palazzetti nostrani per monetizzare il loro talento: il campionato ne è in qualche modo impoverito, ma allo stesso tempo queste atlete han tutte superato i 30 e favoriscono un ricambio generazionale ed il lancio di nuove ragazze che almeno nel volley non mancano mai. Vedere le donzelle giocare a basket mi è sempre risultato difficile, lo ha confermato uno spicchio di partita collegiale tra Nebraska e Purdue. Stessa pessima impressione che mi avevano lasciato gli ultimi europei, quelli in cui le russe avevano piallato chiunque mostrando gli unici decenti spiragli grazie a due giocatrici, la lungagnona Maria Stepanova e la guardia Elena Danilochkina nominata poi miglior giocatrice del torneo. Si divide tra Russia (Ekaterinburg, dove sterminarono la famiglia dello Zar) e Wnba (le Sparks di LA) Candace Parker, sorella dell’ex stella del Maccabi e probabilmente miglior giocatrice di basket del momento. E forse di sempre. È pure sposata con Shelden Williams, sì proprio quel pippone con la faccia da bue rivelatosi uno dei grandi abbagli degli ultimi draft, il che toglie ogni dubbio su chi sia il componente della famiglia realmente portato per il gioco. Venendo dalla stagione invernale gare di sci ne ho seguite, anche se tra le donzelle lo strapotere di Lindsey Vonn appiattisce alla grande la competizione. La statunitense oltre ad essere il classico cannibale in pista è anche una perfetta macchina da merchandising in pieno stile americano. Bionda col sorriso sempre pronto e la posa impeccabile, usa sci maschili e sta migliorando anche nelle discipline in cui era meno portata. Se le altre non si danno una svegliata sarà buio pesto. Tra le poche avversarie papabili quest’anno è sbocciata Tina Maze, salita alla ribalta delle cronache per esser stata accusata dalla federazione svizzera di indossare una sottotuta irregolare. Una volta scagionata si è rifatta mostrando un reggiseno con la scritta “not your business”, modo carino per chiudere la vicenda il cui vero mistero rimane come gli svizzeri abbiano saputo della sua biancheria intima. La slovena tra l’altro oltre ai podi in gara si gioca quello riservato alle atlete più belle degli sport bianchi rivaleggiando con Torah Bright, snowboarder australiana di fede mormone vincitrice dell’oro nell’halfpipe alle ultime Olimpiadi. Menzione anche per le due pattinatrici asiatiche Miki Ando e Kim Yu-Na, giapponese la prima e sudcoreana la seconda, ammirate durante i mesi freddi per soddisfare altrui esigenze. Perché di mia volontà non sarebbero eventi in cima alla lista. Quando si dice abbinare fascino a classe ed eleganza. Altro che Kostner. Il vero evento dell’anno però sono le Olimpiadi londinesi e l’obiettivo è condiviso da un ventaglio di diverse discipline, dalla regina atletica ad altre più defilate. Nel sommerso la mia pesca ricade sull’hockey su prato ed il capitano della formazione argentina, Luciana Aymar, autentico diamante latino e unico sfolgorante e personale esempio di come una disciplina possa essere vista solo in funzione di chi la pratica. Perché sfido a sostenere non si tratti di uno sport noiosissimo. Un approccio che a volte non si discosta troppo da quello che riservo al tennis: riesco a seguire con una certa continuità solo Wimbledon perché a quanto pare il verde riesce a rilassarmi e favorisce l’appisolamento. Con le Olimpiadi quest’anno si dovrebbe raddoppiare. Per il resto fatico a reggere un set nella sua interezza, figurarsi una partita. Specie nel panorama femminile, piattino in termini di talento, colpi, varietà di gioco. Il vuoto di potere dopo le Williams. Siccome le scimmie urlatrici modalità Azarenka e Sharapova non le sopporto per via del sonnecchiare le mie soddisfazioni arrivano dalla raffinatezza di Daniela Hantuchova e dalla panza anti-atletica di Petra Kvitova, fresca campionessa uscente. L’atletica propone tantissime protagoniste, dall’infinita flotta di russe alla sfida nella velocità tra giamaicane e statunitensi. Veronica Campbell-Brown a detta di Bolt è un esempio ed una leggenda, perché capace di confermare l’oro in due edizioni olimpiche, privilegio riuscito a pochi. Di sicuro anche in terra britannica proverà a conquistare una medaglia. Stesso obiettivo che si porrà Lolo Jones, ostacolista stelle e strisce che mi ero troppo abituato a vedere in veste di telecronista a bordopista per Eurosport. Rivista gareggiare in un meeting indoor a Dusseldorf la speranza è che abbandonati gli infortuni possa tornare al massimo livello e pronta per Londra, dato che la ragazza era decisamente da corsa. Chiudo citando Valentina Vezzali, fulgido esempio di cosa significhi possedere lo spirito sportivo. Dopo aver ripetutamente vinto tutto quello che la sua disciplina le consentiva di vincere, accumulando titoli e medaglie fino alla nausea, la smania di competere, vincere ed esultare ancora le brucia dentro rendendola famelica. Una così potrebbe tenere lezione ad intere scolaresche di atleti che pensano di aver raggiunto il traguardo appena intascano un bel contratto.

 
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Pubblicato da su 8 marzo 2012 in Sport & Cultura

 

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Basket in quattro salse

Vengo da una domenica passata a combattere contro un cotechino in camicia accompagnato da risotto alla milanese e verdure in brodo. Chi sa di cosa parlo può annoverarlo tra le dure battaglie della tavola. Domenica in cui si correva il rischio parallelo di indigestione cestistica, col palinsesto televisivo che offriva ampia scelta in formato quattro stagioni potendo pescare da quattro diversi stagni. Incontro da lustrini e scritte luminose in Nba, nella città del cinema arrivava la compagnia teatrale a nome Miami Heat. Sempre Stati Uniti ma costa opposta per rinverdire la sfida collegiale per eccellenza già passata sul radar un paio di settimane fa: stavolta tocca a North Carolina portare gli omaggi in quel di Duke. Altro cambio di scenario, si attraversa l’Atlantico e gli incontri sono quello nostrano tra Siena e Milano mentre nelle province basche atterra il Barcellona nella sfida di Liga ACB. Dati orari, reti di trasmissione e circostanze, mi sono sintonizzato sull’offerta stelle e strisce con qualche mozzicone europeo. Sarà che la Rai non riesco mai a considerarla in generale come emittente sportiva. Del panorama italico che dire, Siena mantiene il controllo e anche se sarà meno dominante del passato, vuoi per propri demeriti ma soprattutto perché finalmente si sta alzando il livello delle avversarie, batterla in casa resta complicato. Col pensiero volto ai playoffs riuscire ad averne la meglio in una serie alle tre o quattro partite ritengo sia ancora impraticabile. Lo mostra Cantù che quando conta va sempre sotto, si accoda Milano che se la gioca ma non vince. Almeno l’Armani sembra aver trovato una quadratura solida dopo aver smontato e rimontato pezzi come nelle Lego. In Spagna la faccenda si consuma in fretta: quando la squadra ospite chiude il primo quarto avanti 23-6 la partita riacquisterebbe senso solo se avvenisse un rilassamento da eccesso di confidenza e consapevolezza di forza. Non è il caso in questione, il Barça mostra chiaramente i muscoli e controlla, nonostante gli sforzi televisivi di vendere il prodotto la partita è diventata un rabbioso tentativo di rimonta sempre rintuzzato. Questi di Bilbao mai stati simpatici, una banda di farabutti sempre pronti a buttarla sulla rissa, le provocazioni e le sceneggiate. La partenza folgorante è circostanza che si ripete anche al Cameron Indoor: ai Tar Heels essere stati bruciati sulla sirena nell’incontro precedente dev’essere pesato assai. Occasione di rivincita fresca fresca condita dal fatto che la posta in gioco è molto alta, c’è in ballo la vittoria della Conference e probabilmente una delle ambite teste di serie nel tabellone del torneo Ncaa. Come detto inizio col botto, e 48-24 la prima frazione  per gli ospiti, che nel secondo tempo controllano agevolmente per l’88-70 finale. Gran ripassata con gli interessi, tanto per stabilire chi sia il più forte tra le due. Rivers viene limitato bene come tutti gli esterni, Duke inizia tirando in modo disastroso nei primi dieci minuti e riassestando il baraccone quando erano scappati già tutti quanti. Una partita non fa primavera ma per una squadra considerata tra le prime 5 della Division I è una brutta botta. I Blue Devils sono una squadra giovane, sotto i tabelloni i fratelli Plumbee offrono due corpaccioni con basilari movimenti offensivi, ma a me paiono una coppia di idraulici. Niente da spartire con Zeller e Henson, altra categoria e altra eleganza. Dovessero fare molta strada nel torneo mi stupirei, o probabilmente starei solo sopravvalutando il livello attuale del college basket. North Carolina invece ha una squadra più navigata, e nell’occasione i suoi tre perni Marshall, Barnes e Zeller han tutti esibito una buona prova trascinando il resto della squadra: fa bella figura anche l’ultimo rappresentante della stirpe McAdoo. Di questa nidiata presto o tardi diversi faranno il salto tra i professionisti: impressione personale nessuno reciterà ruolo da fenomeno ma tutti potrebbero avere una discreta carriera. Coi 35 secondi per possesso i grandi vantaggi vengono gestiti in modo spesso sonnolento, rinunciando a giocare come si sa: nessuna eccezione pure qui, ma il divario non scende mai sotto la doppia cifra. Nonostante questo, il tifo del pubblico di Duke non muta di una virgola per tutti e quaranta i minuti. Rumorosi e ottimisti fino alla nausea. Chapeau.

Gran finale con una partita resa importante dalla mannaiata di Wade a Kobe in quel di Orlando. In America si chiedevano se i Lakers avessero dovuto “retaliate”, vendicarsi come nelle meccaniche infantili. Io invece non volevo perdermi l’approccio del Bryant incazzato, quello che spedisce messaggi di forza quando lo irritano. Accontentato. 18 nel primo quarto con percentuale immacolata e sensazione che si fa come dice lui. Non si gioca di squadra ma l’Nba si guarda più per vedere all’opera i singoli no? Battier lo prende in consegna dal secondo in poi per complicargli le cose, ma questa è una di quelle serate. I Lakers conducono sempre con un confortante vantaggio, ma la vera notizia è che sembra aver scoperchiato il sarcofago anche Artest. Il gran vecchio pazzo non produce un’azione da manuale che sia una ma quando decide di incidere si fa notare. Gli Heat nel 3° tornano a -2 ma è il loro massimo risultato. Bosh è assente e si assiste anche all’evento storico dell’uscita per falli di Wade, personaggio piuttosto benvoluto dai fischietti. Stavolta invece quattro falli nemmeno troppo intelligenti in un amen e ultimi minuti da osservatore in panchina. Senza lui e James questa squadra verrebbe travolta nelle Top 16 di Eurolega. James che accumula i soliti vistosissimi numeri, ma ormai si è capito che incidono poco. Le sue prestazioni straordinarie rientrano nell’ordinario, perché in fondo non fanno vincere. La partita la sigilla Kobe con un paio di canestri dei suoi. I Lakers questa partita dovevano vincerla per una questione mentale, ma anche se a Ovest la situazione è fluida dubito che questo organico possa arrivare fino in fondo. Urge scambio che renda la squadra più equilibrata, alcune posizioni più affidabili. Regia in primis a mio modo di vedere. Su Gasol nessuna sentenza, ma pare evidente che sia sottotono rispetto al giocatore di un paio d’anni fa, quando era semplicemente la miglior ala forte del mondo.

 
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Pubblicato da su 7 marzo 2012 in Basket, Basket Europeo, NBA

 

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Un calcio nel sedere

Il calcio è uno sport per gente non intelligente. Niente spocchia, solo la costatazione e l’idea che si solidifica in testa dopo il teatrino tutto italiano degli ultimi giorni. Mentre il Liverpool prevaleva ai rigori sul povero Cardiff in una vibrante finale di Coppa di Lega, quanto deve bruciare ai gallesi veder dissolversi uno storico sogno proprio mentre lo accarezzavano con mano, in terra di nostra e vostra conoscenza occupavano spazio gli strascichi della partita di cartello domenicale. Ora cominciare un discorso sarebbe cosa lunga, quindi asciugo. Parlare del capitolo informazione è superfluo, a me la figura del giornalista piace, se fatto bene penso sia uno dei lavori più belli che ci siano. Ma almeno a livello sportivo il 90% abbondante in Italia è composto da gente poco competente, che col tempo invece di aggiornarsi, migliorare, ampliare il proprio bagaglio di conoscenze si ingrigisce rimirandosi sul piedistallo in cui si è (o è stato) issato. La qualità migliore diventa la lusinga o l’istigazione. Per dirla alla Bob Knight (e se sei giornalista chi è questo signore devi saperlo), nella scala della mia considerazione e del rispetto state due gradini sopra le prostitute. A volte sotto. Quindi viva la sparuta minoranza che al contrario stimo enormemente. Passando ai fattacci: il calcio italiano è un poltergeist da tempo ormai. Proporre un’amnistia sul caso scommesse perché il marciume è troppo esteso la soluzione più ridicola. Ma non mi sorprende, anche la più gettonata. Senza entrare nel merito, si viene da anni di bufera e ancora se ne sentono gli strascichi. Un colpo di spugna netto non è mai stato dato, e anche se fosse per ricominciare ci vuole tempo e fiducia. Doti che nessuno sembra avere. Bello parlare di tecnologia e riforma delle regole, ma le prime a frenare sono sempre state le società stesse: l’incertezza alimenta polemiche e fornisce giustificazioni, scuse dietro le quali celarsi. Devo ancora sentire un allenatore che non si è mai lamentato di arbitri e decisioni. Magari non platealmente come fatto da Conte per preparare il terreno, ma in maniera più subdola e velata. Alla Allegri. Uhm forse Guidolin. Lo sbaglio lo si accetta o non lo si accetta, sempre. Anche quando è grossolano. Che poi ad alzare al voce siano le società che pesano di più fa sempre parte del solito teatrino. Si dimenticano in fretta parole ed azioni compiute dagli stessi interpreti in passato. Io memoria ne conservo e la loro credibilità ai miei occhi è nulla, ogni volta che aprono bocca è un’occasione persa per starsene zitti. Arcinote dichiarazioni di Buffon: modestissimo parere, uscita sciocca e basta in linea col personaggio, osannato e molto al di là dei propri meriti. Da rispettare la sincerità? Perché? Basta che una persona sia sincera e può dire tutte le cavolate possibili? Questo signore ammette di negare uno dei principi fondamentali dello sport, cioè l’onestà. Allora non chiamiamolo più sport ma qualcos’altro. Oltretutto l’onestà non è un principio che si usa a gettone. Non si è onesti a scelta, a giorni alterni come le targhe, al supermercato sì ma sul posto di lavoro no, con i genitori sì ma con gli amici solo a volte. Io quando gioco, qualsiasi sia lo sport, non baro. Anche dovesse trattarsi di una rimessa. È più forte di me. Semmai è ridicolo che Buffon venga criticato da colleghi del suo stesso mondo, gente disonesta fino al midollo, che ogni domenica fornisce l’esempio con vagonate di gesti antisportivi. Ma finché chi si butta in area o accentua un contatto veniale per accaparrarsi rigore o punizione viene definito furbo, scaltro, smaliziato, esperto, allora non si fa altro che avvallare questi comportamenti. Anzi direi incoraggiare, e non dubito che molti allenatori ed istruttori lo facciano già coi ragazzini, tanto per oliare la catena già alla base. Con un tale curriculum, please non parliamo di onestà. Perchè anche se non è una barzelletta ridono tutti.

 
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Pubblicato da su 29 febbraio 2012 in Calcio

 

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Basket a Disneyland

Azzoppato da un simpatico virus intestinale il fine settimana mi ha visto inchiodato sul divano. Premessa per ammettere che la pausa dell’All Star Game l’ho vista. Almeno finché ho resistito. Località Orlando, Florida, conosciuta nel mondo come sede del più famoso parco divertimenti della Disney. Quella che Phil Jackson durante le finali del 2009 bollò come città di plastica. Le due metà si sposano. In questi casi non si sta parlando di basket reale e nemmeno di partita, termine offensivo per quel che si vede. Espressioni più consone possono essere spettacolo, esibizione, passerella. Il mondo Nba deve pubblicizzarsi, è bravissimo nel farlo, anche se sceglie vie che non mi appartengono. Togliendo i lustrini, i luccichii, le ridondanze, insomma tutto quello che sta attorno, e lasciando il palco ai protagonisti, sarebbe già un’altra cosa. Se poi questi si impegnassero anche assisteremmo a bellissime partite.  Purtroppo a prevalere è il senso dello spettacolo americano, quello che come un’epidemia senza vaccino sta contagiando a livello globale, tutto apparenza e vacua sostanza. La “cosa” del venerdì sarebbe ora di abolirla, inutile proseguire una farsa mascherata che non so nemmeno quanto bene faccia all’Nba stessa. Ascoltando storie e aneddoti di telecronaca rimangono la fantasia anarchica di Rubio, la meccanica di tiro di Irving e segnali positivi da Hayward e Monroe: due così spaesati in quel letamaio corrispondono a possibili giocatori veri in ben altri contesti. Il sabato diviso in tre manifestazioni è risultato lui pure debolissimo. Velo pietoso sullo skills challenge: se ai partecipanti non frega nulla perché dovrebbe a me? Un sorriso me l’ha strappato Parker che almeno è riuscito a polemizzare dopo aver ricevuto il premio. Schiacciate: tutto già fatto, tutto già visto. Se poi portato in scena da simpatici carneadi non interessa proprio a nessuno. Mai stato amante di queste cose, ma l’unica soluzione è portare i vari James, Iguodala, Westbrook, Griffin e compagnia che di schiacciate migliori ne offrono in partita. O chiudere bottega. Tiro da tre: unico interesse guardare la meccanica di tiro di grandi giocatori come Durant o Love. Ma anche questa gara mi è sempre piaciuta poco specie come concetto, in quanto sembra che nel basket i fondamentali che contino siano questi due, schiacciate e tiro da tre. Messaggio molto in voga, lo riconosco. Solo che chi vince dev’essere bravo a fare tutto il resto. I due giorni di attesa insomma sono il solito fiasco. L’All Star Game non risolleva di molto le quotazioni, grazie alla guida di alcuni personaggi è scaduto nella cialtroneria negli ultimi anni. E non si partiva da una base di serietà ed agonismo incredibili, detto tutto. Di trecento giocate ce ne sono una ventina da salvare, singoli colpi di classe o piccoli gesti. Se poi vi bevete la favola dei televenditori (ma pure quelli cartacei) della rimonta finale e della “partita vera” degli ultimi minuti allora la vediamo agli antipodi. Sempre dalla parte di Duncan che chiedeva di essere impiegato il meno possibile. Non bisognava aspettare quest’evento per capire come a Durant riesca tutto con una naturalezza impressionante. Molto interessante il suo rapporto futuro con Westbrook, uno che il palcoscenico se l’è preso con la forza. Mentre nelle grandi accoppiate del passato era chiaro chi fosse il numero uno e chi il secondo violino, qui assistiamo ad un caso anomalo. Nel senso che a mio avviso il numero uno conclamato è Durant, ma a Westbrook bisogna avere il coraggio di spiegarlo. Lui non si sente da meno e bruciando di competitività farà di tutto per essere al livello del compagno di squadra, creando una sorta di leadership a due teste: oltretutto Kevin mi sembra caratterialmente simile a Duncan e non a Bryant, egocentrico che ammette solo subalterni. Il fenicottero dei Thunder è più leader silenzioso, interessatissimo a vincere. Se questa competizione interna alla squadra porterà benefici come dovrebbe o deflagrerà negativamente solo il tempo saprà dirlo. Stigmatizzato il solito atto di simpatia del signor Wade, un cattivo travestito da buono e protetto come la Monna Lisa, una menzione la meritano sia Marc Gasol che Kevin Love, due giocatori veri e molto, molto interessanti in previsione futura. Soprattutto il lungo di Minnesota: miglior rimbalzista delle lega (guardacaso tra i pochissimi ad effettuare un solido tagliafuori), tra i primi marcatori e con quel rilascio dall’arco. Nella terra dei lupi potrebbe arrivare a breve una grande svolta, tenuto conto che Rubio prove alla mano sembra sia stato ben accettato dai compagni.

 
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Pubblicato da su 28 febbraio 2012 in NBA

 

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Crocevia Spagnolo

Incrocio sulla direttrice Italia – Spagna nel quinto turno di Eurolega, con le nostre affossate in entrambi gli scontri e sempre per un fatidico, fastidioso, determinante punticino. A voi la scelta dell’aggettivo calzante. Entrambe reduci da una finale di Coppa Italia vissuta con opposti sentimenti, Siena si è incuneata nel cuore dei Paesi baschi mentre a Desio Cantù riceveva il panzer blaugrana. Bilbao era alle corde, vittoria necessaria per proseguire la favola che prenderebbe maggior sapore dall’estromissione del Real Madrid, la contendente. Real che dopo il bel successo di Coppa del Re si sbarazza di Malaga con una scrollata di spalle e forse scopro troppo tardi quanto sia forte, o semplicemente paga un paio di mesi da montagne russe. La partita tra Gescrap e Montepaschi non è per i puristi del gioco: tensione, punteggi bassi, ferri a ripetizione, superare la doppia cifra in un quarto è un traguardo. Tirano male praticamente tutti e azioni se en costruiscono poche, ma almeno l’equilibrio è garantito. A Siena una sconfitta cambierebbe poco ma è in questi frangenti che emerge la natura cannibale del vincente. Il clima è caldo, Mumbru lo riscalda provocando e gli arbitri mostrano debolezza appioppando un antisportivo ad Andersen per contatto non necessario a gioco fermo. Roba veniale, una terna con i cosiddetti avrebbe sanzionato un tecnico per simulazione al basco che si butta in due o tre circostanze filate. Pianigiani vede i suoi stanchi e non vuole protrarre oltre l’agonia. Nei time-out il concetto base urlato a ripetizione è di non passare i tiri, non cercare l’esecuzione perfetta: in giornate come questa appena liberi non si deve esitare. Bilbao resta viva grazie alle vagonate di rimbalzi offensivi conquistati di pura rabbia e si arriva all’ultimo minuto, in cui comincia la processione dalla lunetta. Siena cerca di sparigliare il punteggio per evitare il supplementare con l’ultimo tiro, Katsikaris copia la tattica suscitando malumore nel pubblico che non apprezza. Probabilmente il greco aveva terrore di subire un tiro da tre e voleva chiudere a tutti i costi col possesso per vivere o morire di propria mano. Accontentato. Palla a Raul Lopez, migliore tra i suoi con Banic e Fischer; Stonerook, fino a lì solito erudito pensatore, cambia e tiene ma all’ultimo salta lasciando uno spiraglio. Tiro difficile, sirena, solo rete. 60-59 e delirio. Vincere partite del genere fa sempre bene.

Situazione speculare tra Cantù che gioca per restare in corsa e il Barcellona che arriva da imbattuto. Mancano Micov ed Eidson, e il peso specifico del serbo probabilmente è maggiore. Anche qui si marcia a braccetto, la solita Bennet spreme tutto quello che ha mentre il Barça sbiadito della finale di coppa persa tiene facendo i conti con le proprie debolezze quando Navarro non è al top. Ammirato da come Basile si gestisce e ancora incide alla sua età in tutto quello che fa per il campo. C’è anche Doron Perkins, folletto che vive sul filo del rischio da un’intera carriera, e si fa sentire. Un parziale di 7-0 nell’ultimo quarto dona 6 lunghezze di vantaggio a Cantù e sembra far pendere la Torre di Pisa dal lato buono, ma i catalani difendono sul serio e alla squadra di Trinchieri si stacca la spina. Niente faville in attacco, ma pian piano i blaugrana ricuciono fino alla parità. Rabaseda sostituisce Eidson e mostra cosa significa essere il 10° o 11° nel roster del Barça, che però annovera disgrazie come Huertas e Perovic. Nel finale due liberi di Shermadini portano cantù sul +1, Navarro risponde con la stessa moneta lasciando l’ultima azione alla Bennet. Leunen prende il fondo e quasi la perde, rimessa e tre secondi per tirare. Destinatario fortemente sospettato: Basile Gianluca. Conclusione complicata, primo ferro: 62-63 e addio all’Eurolega. Anzi arrivederci.

A completare il quadro il Cska spalma l’Olympiacos come marmellata mandando tutti a referto. I greci si giocano i quarti col Galatasaray nell’ultimo turno, mentre i russi sono alle final four diretti perché in una serie non li batti tre volte. In partita singola è comunque dura visto il gioco di squadra ed i solisti, ma è anche vero che non hanno mai incontrato vere pretendenti, visto che il Pana di quest’anno lo metto un gradino sotto.

Panathinakos che nel girone dei ciapa no perde in casa contro Milano, solita leonessa della battaglie perse, ma non dilapida i 22 di vantaggio dell’andata. Verdi qualificati e ultimo posto da giocarsi tra Fenerbahce e Kazan, due squadre non irresistibili.

 
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Pubblicato da su 24 febbraio 2012 in Basket Europeo

 

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Sondaggio Parte Seconda

Non mi ero scordato. Ieri il back court, oggi la front line. Anche qui ho scelto in base alle sensazioni mie. Qualche nome potrebbe essermi sfuggito, qualche altro l’ho scartato perchè non mi piace il suo gioco.

Come nella posizione di 3. Deng non ha mai giocato in Europa e togliendoci la maschera è Sudanese, però gioca per la Gran Bretagna, e tutte le volte che ha partecipato ai tornei internazionali ha sempre fatto benissimo. Jerebko invece mi piace per la concretezza e l’ho preferito a gente come San Emeterio, che non mi convince troppo, o Siskauskas, in parabola discendente.

Ala forte, pochi dubbi.

Qualcuno in più sulla posizione di centro, ma tutto sommato questi cinque mi sembrano tra i migliori.

 
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Pubblicato da su 22 febbraio 2012 in Basket Europeo

 

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